E sopra la panca la capra campa. Anzi no, la storia che voglio raccontarvi inizia in un altro modo:

“C’era una volta un amatore d’arte che chiese a una piccola medievista – e a chi la volesse accompagnare – di organizzare insieme il un weekend di ottobre a Pavia, con la scusa di visitare le cripte longobarde, la Certosa e “la più importante mostra mai realizzata sui Longobardi“. La piccola medievista reclutò un’archeologa e prese i biglietti della mostra per tutti, ma il destino fatale volle che l’amatore d’arte si rompesse una gamba. FINE.”

Assolutamente no, è l’inizio! La piccola medievista (che sarei io) e l’archeologa (l’amica Francesca) decisero comunque di cogliere l’occasione per vedere una città “poco turistica”, anche un po’ per spoilerare all’amatore d’arte se valesse la pena o no visitare la famigerata mostra. E così il ménage-à-trois divenne un fine settimana tra amiche.

Pensate che Pavia, oggi media città della Pianura Padana, è stata capitale di un regno per ben due secoli! Dal 572 al 774 d.C., infatti, fu la sede reale della Langobardia, e anche con le conquiste successive mantenne un ruolo – politico e “simbolico” – di tutto rispetto nella penisola italiana. Paradossalmente, Pavia conserva pochi resti monumentali del suo periodo longobardo, rispetto allo splendore di cui doveva essere ricoperta, proprio perché, al contrario di altri centri che persero progressivamente importanza (come Cividale del Friuli), ebbe una lunga storia di cambi di potere e continuità d’uso, con tutti gli stravolgimenti, i rifacimenti e le nuove costruzioni del caso.

Tranquilli, la lezione della prof di storia termina qui. Lo sapete che Pavia è anche la città natale di Max Pezzali? È questa l’informazione davvero importante, altro che Liutprando e compagnia bella! Ma bando alle ciance: voglio raccontarvi il nostro weekend in pillole, le nostre impressioni e il mio punto di vista “ibrido” da nana in carrozza.

Sabato: due cripte e la chiesa di San Michele

La tabella di marcia prevedeva per sabato l’arrivo in città intorno alle 12.00, con capatina tattica all’albergo A New Guesthouse per lasciare le valige e rinfrescarci. Più un affittacamere che un hotel vero e proprio: gli stessi proprietari lo definiscono un mini hotel e io non ho resistito a prenotare proprio lì, sognando di fare questa foto con le valige:IMG-20171007-WA0005

In effetti è un piccolo condominio, con le stanze al posto degli appartamenti: la nostra camera era nel seminterrato! Purtroppo non ha l’ascensore e nemmeno il servizio della colazione (ma c’è un bar a pochi metri di distanza), tuttavia le stanze sono spaziose e pulite, gli arredi e i sanitari nuovissimi.

Una volta arrivate in centro e rifocillate in una birreria/paninoteca dalla cameriera un po’ burbera, ci siamo dedicate alle chiese (che o chiudevano entro le 17.00 o più tardi avevano la messa).

Pavia, anzi, è famosa per le cripte “longobarde”: tra virgolette, appunto, perché del periodo longobardo rimangono forse la forma di questi spazi e qualche capitello reimpiegato nelle nuove costruzioni di età romanica. La prima cripta che abbiamo visitato è stata quella di San Giovanni Domnarum, chiesa fondata intorno al 654 dalla regina Gundeperga, figlia di Teodolinda e moglie prima di Arioaldo e poi di Rotari (quello dell’Editto!), perché fosse luogo di battesimo dedicato alle donne: domnarum, per l’appunto. Fateci caso, i battisteri sono sempre dedicati a San Giovanni (Battista).

nana cripta

Io nella cripta di San Giovanni Domnarum

La chiesa rimane aperta in alcuni giorni grazie ai volontari (davvero gentili) del Touring Club Italiano, la cripta ha ingresso libero ma è gradita una piccola offerta: scendere nel ventre della terra è un po’ complicato, con quella scaletta di pietra dai gradini alti e scivolosi, e non è certo accessibile alle persone in carrozzina. Come tutte le cripte del resto: è un assioma difficilmente confutabile. Per questo mi sento molto fortunata a poter accedere a quasi tutti i luoghi impervi di questo tipo, che siano ipogei o torri: la cripta di San Giovanni Domnarum è davvero affascinante, un puzzle di periodi storici diversi (dal pavimento di un edificio termale romano, ai capitelli di spoglio altomedievali reimpiegati nella cripta di inizio XI secolo, agli affreschi di XII secolo con santi a mezzobusto). Con la ricostruzione della chiesa nel Seicento, la cripta venne prima utilizzata come ossario (avete già letto il mio articolo sull’Ossario di Custoza?), in seguito interrata e dimenticata: solo con gli scavi del 1914 venne riscoperta.

Grande divertimento è stato trovare, sparsi per la cripta, una serie di mattoni “manubriati” romani, che sono diventati la parola chiave del nostro weekend. Sono grandi mattoni con una fessura usata come presa per il trasporto: lo stupore diventa più grande quando si scopre che le dita di un uomo di 2.000 anni fa hanno lasciato la loro impronta nell’argilla fresca di allora per crearla.

Emozionate da questa visita, io e Francesca ci siamo spostate nella ben più visitata Cripta di Sant’Eusebio (i cui capitelli longobardi compaiono in tutti i sussidiari), che si trova nei pressi delle tre Torri Medievali: non lo sapevo, ma Pavia è definita «la città delle cento torri» proprio perché nel periodo comunale doveva essere una “selva” di alte torri (come molte altre città), con la particolarità che un buon numero di queste sono ancora in piedi, interamente o in parte.

Ma dicevamo della Cripta. La chiesa del VII secolo, che sorse come cattedrale ariana (giusto per complicare le cose, le città longobarde avevano inizialmente un vescovo cattolico e uno ariano), in seguito convertita al culto cattolico, e che venne ricostruita nell’XI secolo, non esiste più dal 1920: al suo posto si erge una grande tettoia ben più recente che musealizza in modo un po’ bizzarro il luogo, non preservandolo tuttavia dagli sbalzi di temperatura e dall’estrema umidità. Anche questa cripta è di inizio XI secolo e vi sono dei mattoni manubriati murati nel pavimento, ma ciò che la rende famosa sono i capitelli “a fibula alveolata” e “a foglie d’acqua” tipici della produzione longobarda, che insieme alle colonnine sono stati reimpiegati per sostenere le volte a crociera romaniche: i capitelli ricordano delle oreficerie e non è escluso che i solchi nella pietra ora vuoti fossero in origine riempiti con pasta vitrea colorata, proprio come le fibule cloisonnées che avremmo visto il giorno successivo alla mostra.

L’ultima tappa della giornata ci ha fatte approdare a quel miracolo del Romanico europeo che è la Basilica di San Michele Maggiore: la luce dorata del tardo pomeriggio autunnale faceva risaltare il colore caldo della facciata in arenaria e creava ombre nelle bifore, nella fila di archetti pensili, nei fitti bassorilievi dei tre portali con figure sacre, esseri fantastici e decori vegetali. Da perdere le mezzore a guardarli incantati uno per uno… Così come vanno osservati i capitelli istoriati all’interno, nella navata e nella cripta, non uno uguale all’altro. La chiesa di San Michele venne probabilmente ricostruita nella forma attuale appena dopo il devastante terremoto del 1117, che fece crollare moltissimi edifici nell’Italia settentrionale, anche se il campanile conserva resti della fase precedente. La chiesa di epoca longobarda era la più importante di Pavia (i Longobardi avevano una venerazione particolare per san Michele Arcangelo e molte chiese di quel periodo sono dedicate a lui), per diventare vera e propria cappella palatina in epoca carolingia e sede di incoronazione per i sovrani italici.

chiesa pavia

La facciata della basilica di San Michele

Alle 17.30 io e Francesca abbiamo ufficialmente dichiarato concluso il pomeriggio culturale, ma per non finire subito a fare il consueto aperitivo ci siamo lasciate trasportare dai flussi di gente per le vie del centro, a vedere le vetrine dei negozi di lusso, a curiosare nei negozi di intimo (la mia debolezza!) e a perderci in libreria. Davo per scontato che Pavia fosse una città completamente in piano, da bravo capoluogo di provincia padano, ma non è affatto così: più volte abbiamo avuto un po’ di difficoltà con la carrozzina a causa di improvvise strade in salita e con ciottoli. Per non parlare dell’ingresso delle chiese, ma anche di negozi e bar! Amici carrozzati pavesi, cosa mi dite al riguardo?

Curiosità: la Feltrinelli di Pavia si trova all’interno di ciò che resta della barocca chiesa di San Rocco. Fico eh? Dovete sapere che a Verona un gran numero di ex chiese semidistrutte o demaniate in epoca napoleonica, sono diventate qualcos’altro e continuano a vivere così: la maggior parte è diventata un bar o un ristorante, ma si trovano anche una biblioteca, un’officina, una banca. A quanto pare è una particolarità tutta veronese e me l’hanno fatta notare i miei amici “foresti”, ma davvero si potrebbe scrivere una guida enogastronomica alle chiese della mia città riconvertite in luoghi di ristorazione (PLIN PLON piccolo spazio pubblicitario: alcune di queste sono descritte in un libro del 2016 a cui ho collaborato anch’io e che potete trovare QUI)!

Feltrinelli di Pavia

Le Feltrinelli all’interno della chiesa di San Rocco

Per il luogo dell’immancabile aperitivo abbiamo scelto la frequentatissima Piazza della Vittoria, che sorge nel luogo del Foro romano, ai tavolini all’aperto di un bar vicino all’ingresso del Mercato Ipogeo (sotterraneo): eravamo incuriosite ma non siamo riuscite a scendere perché ormai si era fatto tardi ed evidentemente l’ascensore a una certa ora smette di funzionare. Per la cena ci siamo lanciate a caso e abbiamo scoperto Kursaal Multibreak, ristorante-pizzeria dall’arredamento minimal che si inserisce nella vecchia struttura del complesso che ospitava, dal 1915, eleganti locali di ristorazione e caffetteria e un cinema multisala. Kursaal Multibreak è un ristorante molto spazioso per cui è facile accedervi con le carrozzine, ha wifi libero e prese elettriche (anche USB da muro!): una manna per noi turiste social addicted con il powerbank scarico! La cucina (a vista) ha una grande attenzione per il gluten free e propone, oltre alle pizze, piatti e dolci con prodotti di stagione e del territorio, anche se per i vegetariani/vegani la scelta diventa molto ridotta. Il personale è cordiale, lo chef viene personalmente ad assicurarsi che tutto proceda bene e, una cosa per me fondamentale, è un luogo in cui si può parlare senza dover urlare perché la musica è troppo alta! Ci tornerei senz’altro.

Dopo cena, io e Francesca eravamo morte per fare qualsiasi altra cosa (c’abbiamo un’età ormai) e il nostro pazzo sabato sera l’abbiamo passato nel nostro grazioso mini hotel, per arrivare fresche alla domenica: il giorno della «mostra epocale».

Domenica: San Pietro in Ciel d’Oro e la mostra sui Longobardi

Ora, il solo fatto che nel proprio sito una mostra si autodefinisca “epocale”, non è che mi faccia proprio sentire puzza di bruciato, ma un leggero “odore di freschìn” quello sì (sul significato, non traducibile in italiano, cercate sul sito dell’Accademia della Crusca). Ma procediamo con ordine.

Dopo aver fatto il check out ed esserci rimpinzate con caffè e brioche (io al pistacchio, Francesca alla marmellata) al bar sport vicino all’hotel, ci siamo dirette alla basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, anch’essa romanica su fondazione altomedievale e così chiamata perché probabilmente nell’abside si trovava un mosaico a tessere dorate. Andare a visitare le chiese di domenica mattina non è mai una mossa vincente, a meno che non si sia molto devoti e disposti ad ascoltare le messe in successione serrata. Ma noi lo eravamo e abbiamo preferito aspettare la fine dell’ultima messa sulle panchine del tranquillo parco alberato lì fuori, pronte per approfittare dei 10 minuti messi a disposizione dal sacrestano prima che chiudesse le porte della chiesa per la pausa pranzo!

chiesa Pavia

La facciata di San Pietro in Ciel d’Oro

E così, prima ancora che uscissero tutti i fedeli, ci siamo fiondate nella navata e poi giù nella cripta (rifatta in stile nell’Ottocento). Pensate che in questo luogo apparentemente defilato sono conservate le spoglie di nientepopodimenoché: Severino Boezio, re Liutprando e, last but not least sant’Agostino! Proprio così, Liutprando (712-744), fondatore di un monastero maschile presso la Basilica, comprò le reliquie del santo dalla Sardegna, per salvarle dalle scorribande dei Saraceni: ora il corpo è conservato in una elaboratissima arca trecentesca nel presbiterio. Le ossa di Boezio, invece, ucciso da re Teodorico nel 525 d.C. dopo due anni di prigionia pavese, sono raccolte in un’urna sull’altare della cripta; quelle dell’amico Liut, tumulate alla base dell’ultimo pilastro destro della navata.

Sepoltura

La tomba di re Liutprando

Invece di andare a pranzare, ci siamo decise a procedere subito con la mostra, fuori il dente fuori il dolore. Sto esagerando, veramente eravamo entusiaste e curiose. “Longobardi. Un popolo che cambia la storia” è un’esposizione itinerante, attualmente al Castello Visconteo fino al 3 dicembre, che approderà al MANN di Napoli e infine all’Hermitage di San Pietroburgo ad aprile 2018. Ergo, avete ben tre possibilità per (non) farvela sfuggire.

Mostra Longobardi

Il biglietto della mostra

pavia

Il cortile interno del Castello Visconteo

Il Castello Visconteo è un luogo bellissimo, ma se sei un disabile in carrozzina iniziano le seccature (pensavate voi eh? E invece no). Non che non sia accessibile affatto, eh, ma per arrivare all’ingresso della mostra – nelle scuderie a livello del fossato – per poi passare al piano superiore – “a livello strada”, con la BIGLIETTERIA, le sale finali della mostra e il resto del museo civico – puoi scegliere tra: 1. fingerti miracolato sgambettando su 4-5 rampe di gradini in ferro di una scala antincendio; 2. farti/far fare i muscoli a qualcuno che ti spinga la carrozzina lungo una discesa sterrata che arriva a livello del fossato (occhio, che al ritorno diventa una salita!); 3. avere un’automobile con cui arrivare nel fossato proprio davanti all’ingresso della mostra, da un cancello secondario e un giro panoramico lungo tre lati della fortezza, ma non capire bene poi come salire al piano superiore senza parcheggiare l’auto nel mezzo di un parco pedonale, perché la segnaletica non è chiara. Se scegli la terza opzione, assicurati di avere qualcuno con te che abbia le gambe buone e che, una volta giunti con la vostra bella macchinina davanti alla porta, si faccia le rampe di scale in ferro per andare a prendere i biglietti al piano superiore.

Io nel mio pragmatismo, da leggersi anche impazienza, ho optato per una soluzione mista: la 3 per iniziare, confluita nella 1 per raggiungere il bookshop senza dover perdere il pomeriggio. Ma arriviamo al dunque: mi è piaciuta l’esposizione? Più no che sì. La mostra, di fatto, non è gigantesca, ma è fittissima di reperti, anche molto belli a dire la verità: l’allestimento espositivo prevede la copertura del pavimento e delle pareti con una moquette (di colore diverso per ogni sezione tematica), che sembra uscita da un viaggio sotto effetto di acido lisergico in una boutique di Missoni. Avete presente quando non riuscite a capire se una cosa vi raccapriccia o sotto sotto vi piace da impazzire? Ecco, non riesco a farmi un’opinione al riguardo, anche se la seconda opzione la vedo più improbabile.

Corredi tombali, gioielli d’oro e pietre preziose, fibule a cloisonné con paste vitree, crocette auree, ceramiche, vetri, frammenti di lastre scolpite, manoscritti miniati. Ma anche i crani con le deformazioni fronto-occipitali (crani allungati artificialmente) dalla necropoli gota di Collegno, che non avevo mai visto dal vivo! Oppure quell’incredibile reperto che è la sepoltura di cavallo (senza testa) con due levrieri proveniente dalla necropoli longobarda di Povegliano Veronese, che con un moto di orgoglio campanilistico ho ammirato in mostra per la quarta volta.

Tutto ciò che ho elencato ben disposto nelle vetrine (e sulla forma di queste interverrò tra poco), ma secondo me alla quinta vetrina un visitatore medio allunga già lo sguardo verso l’infilata delle sezioni tematiche per calcolare la durata della Via Crucis: un’esposizione densa di pezzi anche molto belli, dicevamo, ma non accompagnati da un adeguato apparato esplicativo. Le targhette sono abbastanza esaustive, ci sono 1 o 2 video in loop per ogni sezione, ma dicono poco e in alcuni casi lo dicono male: il periodo del V-VI secolo e oltre, quello che un tempo veniva chiamato delle “invasioni barbariche” e che oggi si preferisce definire in modo più neutrale “migrazioni di popoli”, è un momento storico estremamente fluido e complessissimo da studiare, per questo mi ha sempre affascinato. Ma mi metto nei panni del solito visitatore “del grande pubblico” (perché è a questo, di fatto, che punta la mostra) a cui è appena stato obliterato il biglietto nero con la scritta LONGOBARDI e viene schiaffato davanti un vetro con due crani allungati, goti. Per poi passare a una vetrina di gioielli burgundi; e così via. Io sono in grado di fare le dovute connessioni mentali, perché sono argomenti che ho avuto la fortuna di studiare e di farmi piacere, ma sono sicura che il visitatore medio non si sente accompagnato alla comprensione di quel periodo storico, ma rimane confuso e, soprattutto, si annoia.

Ah, le vetrine. Pensavate che gli allestimenti museali progettati ad hoc tenessero ormai conto dell’accessibilità? E invece vi sbagliate anche qui, presuntuosi! Lasciando stare la difficoltà (comprensibile) di rendere fruibile una vetrina di materiali archeologici ai non vedenti, vi assicuro che buona parte di questi non è comunque fruibile dai vedenti in carrozzina. O da un bambino miracolosamente curioso che però non abbia ancora superato il metro e venti. Già, perché le vetrine, lungo i muri laterali o al centro del corridoio delle scuderie, sono di varie altezze ma in quasi tutte vige la tacita regola che gli oggetti esposti vanno visti dall’alto: e se arrivi al metro e venti mettendoti in piedi sulla pedana della carrozzina, rimane comunque un buon 30% di reperti non visti o visti male. Basta un allestimento fatto in questo modo a farmi andare di traverso una mostra.

amiche selfie

Alla prossima, Pavia!

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